di Francesco G. Vicario
Riflessione sacrosanta quella di Pierluigi Battista comparsa nei commenti del Corriere di stamane: che senso ha, oramai, la resistenza di una gabella annuale (da sommarsi alla marea di contributi fiscali) che incombe sul cittadino italiano, finalizzata al finanziamento della Radiotelevisione Italiana? Possiamo ancora parlare di servizio pubblico radiotelevisivo in un periodo di assoluta contaminazione pubblicitaria, anche nei palinsesti Rai, in cui è il mercato degli spot a dettare le regole della programmazione?
Il Ministro Gentiloni recentemente interrogato sul punto, ha risposto picche: il canone rimane.Non foss'altro per rimarcare ancora una volta la presenza di una televisione di Stato che però, ad avviso di molti, più che un onore è solo un onere che appesantisce le tasce degli italiani.
Anche se questi italiani decidessero di boicottare completamente l'offerta televisiva pubblica: oggi è materialmente possibile, anche grazie alla diffusione di massa della tv satellitare.
Battista evidenzia un paragone geniale: è come se chi decidesse di volare esclusivamente low cost venisse costretto a pagare una soprattassa per sostenere il bilancio della (moribonda) compagnia di bandiera: i consumatori insorgerebbero. I sostenitori della "statalità" dura e pura, sostengono ancora oggi che il servizio pubblico sia in grado di offrire imparzialità, completezza e qualità in informazione ed intrattenimento. Ma l'attento telespettatore conosce la debolezza di questa verità ecumenica: la storia della prima e della seconda repubblica, da ultimo e non certo per gravità il caso Raiset, ha dimostrato e dimostra costantemente il peso soggiogante con il quale la politica ( quella gretta, del quartierino) ha oppresso il tubo catodico, con la tattica della censura, dell'oscuramento e della clandestinizzazione. Politica poi regolarmente battuta dalla coscienza civile che mal sopporta il sequestro delle libertà: è successo, qualcuno lo ricorderà, con Mina incinta di un Pani sposato e separato nel 1962, quando la Rai decide di tenere lontana la Tigre accusata di scandalo a cielo aperto; tornerà qualche anno dopo come mattatrice di Studio Uno, vincendo politica, moralismi e buoni costumi, trionfalmente trascinata dal suo pubblico: 20 milioni di telespettatori incollati allo spettacolo del sabato sera.
E' successo e succede a Marco Pannella, che in 40 anni di battaglie referendarie e digiuni nonviolenti ha dimostrato più e più volte di rappresentare la maggioranza schiacciante del paese, al di là del male partitocratico, scagliandosi tenacemente contro una Rai -Tv incapace di incardinarsi sui binari della legalità e della democrazia.
E' vero, la Rai ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita culturale italiana del dopoguerra e ha mantenuto un certo equilibrio fino alla fine degli anni 70, quando l'avvento della tv commerciale puntò tutto sull'esosità dei cachet, con cui Berlusconi aggredì lo status quo del mercato radiotelevisivo (offrendo per esempio nel 1979 un contratto da seicento milioni all'anno a Mike Bongiorno che fino a quel momento ne guadagnava ventisei). Cultura Plutocratica? Forza del mercato, direi più propriamente. E in un' ottica di libero mercato un soggetto avantaggiato da un aiuto di stato dovrebbe avere vita breve.
lunedì 10 dicembre 2007
Ministro Gentiloni, ha ancora senso il canone Rai?
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1 commento:
Soprattutto se il soggetto in questione non assolve la sua funzione di TV di stato ma diventa una TV di governo (o di regime, come più aggrada)
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